Essere al mondo
Osservando le opere di molte artiste si avverte un senso di provvisorietà che spesso corrisponde all’esigenza di stabilire un proprio punto di vista: dei confini sia fisici che concettuali che mirano a focalizzare e intensificare la zona di concentrazione.
Come sostiene in parte Donna Haraway, a proposito della peculiarità di un arte al femminile, la limitazione del frammento è il frutto di una consapevolezza, di una autocoscienza, del limite dell’atto stesso della conoscenza, che si estende al di fuori dell’individuo. La componente correlata è pertanto quella di una variabilità delle costanti e delle situazioni che sono poi proprie del vivere.
Essere un artista per Alessandra significa “tener conto di moltissime variabili: l’eccesso di informazione e di immagini; i media e le tecnologie, intesi sia come strumenti di produzione che come canali di diffusione; i nuovi materiali; il nostro scenario sociale, politico, urbano, industriale, la nostra economia e i modelli di realtà produttiva”.
L’artista risulta così quasi frastornata da un eccesso di informazioni e di dati, un sistema che cerca di controllare, amministrare e situare in una forma decantata e polita.
Sembra pertanto che il suo compito primario sia di selezionare, di porre dei confini: vi è cioè quasi una sorta di ‘responsabilità’ in questo cercare una posizione che sia consona al proprio stare mondo. Ed è interessante questa componente, altrimenti non avvertibile. Sembrerebbe infatti che la sua ricerca verta solo su esiti formali e che l’unica preoccupazione debba essere lo stile: il perseguire una perfettibilità di segno e colore – quasi sempre aggraziato, non cruento e pastello – distoglie invece lo sguardo dalla reale problematica dell’artista. Il problema compositivo che sembrerebbe interessare la sola superficie in realtà si estende a una riflessione di ordine ontologico.
Vorrei ricordare, a tal proposito, un saggio di Giovanni Reale dove viene affrontato il problema del frammento riferito al concetto di corpo in età antica. Al tempo di Omero l’uomo coglieva ed esprimeva le cose e i loro aspetti soprattutto nella dimensione della molteplicità e il termine corpo viene impiegato solo nel momento in cui l’essere umano trapassa a miglior vita. In tal senso per corpo si intende un cadavere, cioè qualcosa di inanimato per il quale si concepisce un concetto unitario e connotativo.
Nell’essere vivente si riscontra esattamente il contrario: una molteplicità di organi con le loro svariate funzioni vitali e dalle differenziate attività che sono sì tra loro armoniche ma anche frammentate e porzioni del ‘tutto fisico’. Nella riflessione sul corpo che viene ora affrontata da Alessandra, se vogliamo ci può essere una riflessione similare ma non solo…
In questa porzione di spazio rappresentata, dove anche la cornice è intesa come limite fisico, una componente imprenscindibile è anche quella dell’assenza, del valore del vuoto. Le campiture monocrome, la lavorazione stessa dello sfondo, ottemperano un’esigenza che è indice di una nudità non tanto sessuale, come si potrebbe dedurre dall’ultimo ciclo di opere, quanto una mancanza di soggetto che accoglie e dà spazio alla lettura del fruitore. In questa apparente ‘assenza’ della stessa artista vi è cioè una pausa, una zona di passaggio, che coinvolge lo spettatore e che lascia respiro e intensità con la sua iconografia spezzata, all’economia del dipinto.
Il pensare a una ‘zona di decantazione’ implica una disponibilità al dialogo e una riflessione che però non è mai autoreferenziale.
In questo senso i frame dell’artista aprono a una narrazione altrimenti impensabile in cui è il supporto neutro a essere il protagonista: nella sequenzialità delle parti si assiste infatti alla costruzione di un testo fatto per immagini, che traduce un discorso sull’identità e su una ipotetica relazione.
Nella non compiutezza dei lavori, che sono partecipi di questa frammentazione esistenziale e conoscitiva, l’artista tuttavia aspira anche a una continuità ideale con la sua vita, con una infanzia da cui desume una dimensione fantastica e innocente. L’universo popolato di peluche, cuccioli e oggetti quotidiani ed esperenziali tratti dall’ambito familiare – si vedano opere come 4 animals del 1997, i 6 tovaglioli del 1998 o i Lights animals del 1999/2000 – è antecedente in maniera coerente, per tutte le caratteristiche strutturali che ho già enumerato, all’ultima produzione, apparentemente altra.
Si tratta ancora di un ambiente casalingo, intimo, connotato da una affettività, amputata nei suoi caratteri di totalità iconografica. Mancanza di interezza, brani di testo si associano a un universo edulcorato e morbido, piacevolmente appagante da un punto di vista sensoriale ma che apre a riflessioni incompiute, che rimangono aperte.
Se l’artista si chiedeva ripetutamente nel trittico Angry (2000): Are you angry with me?, Why are you angry with me?, Dont’be angry with me, ponendosi in una posizione difensiva nei confronti dell’esterno, ora nella serie I… le domande sembrano avere una connotazione positiva ma disillusa nei confronti del reale, caratterizzandosi per una certa perentorietà. La sostituzione del ‘tu’ con ‘io’, il passaggio da un tempo passato a una forma volta al presente e a un agire consapevole volto al futuro (I would like, I’ll try, I want, I haven’t yet decided) pongono l’artista a un punto di non ritorno della propria speculazione estetica.
L’impasse consiste nel dimenticare il fatato universo delle favole, in cui ci si illude ancora della bontà del mondo, al fine di prendere coscienza e forza per potersi confrontare, da persona oramai adulta, con il proprio essere al mondo.
Andrea Bruciati, giugno 2002
Elle…
Galleria Artestudio Clocchiati, Udine
Giugno – luglio 2002